Affluenza Referendum 2025: perché il voto conta (e cosa accade se manca il quorum)

Alle 12 di domenica 8 giugno, l’affluenza ai cinque referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza si attestava al 7,3%. Un dato che, seppur preliminare, disegna già un quadro allarmante: il quorum del 50%+1 – requisito costituzionale per la validità della consultazione – appare sempre più un traguardo irraggiungibile. Ma perché questo voto divide così profondamente il Paese? E cosa succede se gli italiani sceglieranno di rimanere a casa?
Il peso strategico dell’astensione: un “no” senza schede
I cinque quesiti – quattro sul lavoro promossi dalla CGIL e uno sulla cittadinanza avanzato da +Europa – hanno polarizzato il dibattito politico. Da un lato, i comitati promotori chiedono di abrogare norme come i dieci anni di residenza per la cittadinanza (riducibili a cinque) e alcune disposizioni del Jobs Act. Dall’altro, il governo Meloni e i partiti di maggioranza invitano all’astensione, consapevoli che il mancato raggiungimento del quorum equivarrebbe a una sconfitta per i sostenitori del “sì”.
“Non votare non è un gesto neutro: è un’arma politica”, spiega Lorenzo Ruffino, esperto di sistemi elettorali citato da Esquire. “In un referendum abrogativo, l’astensionismo attivo può bloccare il cambiamento più efficacemente di un ‘no’ esplicito”. Un paradosso costituzionale che trasforma le urne in un campo di battaglia tattico, dove ogni assenza pesa come un voto contrario.
I numeri che fanno tremare il quorum: tra disinteresse e calcolo
Le previsioni parlano chiaro: secondo Affaritaliani, l’affluenza finale difficilmente supererà il 35-36%, ben al di sotto della soglia minima. Un crollo trainato da tre fattori. Primo: l’astensionismo cronico, che nelle ultime consultazioni ha sfiorato il 40%. Secondo: la scarsa partecipazione degli italiani all’estero, che rappresentano quasi il 10% del corpo elettorale ma raramente superano il 23% di affluenza. Terzo: la strategia del centrodestra, che invita apertamente a non recarsi ai seggi.
“Se raggiungessimo il quorum, sarebbe un terremoto politico”, ammette un portavoce del comitato per il “sì”. “Ma sappiamo che molti elettori progressisti temono di ‘sprecare’ il voto in una consultazione destinata a fallire”. Intanto, i dati regionali fotografano un’Italia spaccata: in Emilia-Romagna si sfiora l’11% alle 12, mentre la Calabria fatica a superare il 4,4%.
Cittadinanza e lavoro: i temi che dividono (e uniscono)
Il quinto quesito sulla cittadinanza – che chiede di ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale per richiedere il passaporto italiano – è diventato il simbolo di uno scontro ideologico. Per i promotori, è una questione di “giustizia sociale e integrazione”. Per la maggioranza, un “cavallo di Troia” per l’immigrazione incontrollata.
Sul fronte lavoro, i quattro referendum proposti dalla CGIL mirano a cancellare parti del Jobs Act, reintroduendo tutele per i licenziamenti e la responsabilità solidale nelle catene di appalto. “Se vincesse il ‘sì’, i committenti dovrebbero rispondere degli infortuni insieme agli appaltatori”, spiega un analista. Una prospettiva che allarma le imprese, ma che i sindacati definiscono “un passo verso la dignità del lavoro”.
Il dilemma etico: partecipare o boicottare?
In questo clima, molti elettori si chiedono: ha senso votare se il quorum è irraggiungibile? La risposta divide persino gli esperti. “Partecipare è un dovere civico, anche simbolico”, sostiene il costituzionalista Carlo Colapietro. “Ma quando l’astensione diventa l’unica arma per difendere le proprie idee, il sistema referendario mostra tutte le sue falle”.
D’altronde, la storia italiana insegna: su 18 referendum abrogativi dal 1990, solo nove hanno superato il quorum. L’ultimo successo risale al 2011, con il 55% di affluenza su acqua pubblica e nucleare. Oggi, con un governo stabile e un’opposizione frammentata, la posta in gioco è soprattutto politica: un quorum raggiunto segnerebbe la prima sconfitta netta dell’esecutivo Meloni.
Domani si vota: il futuro (incerto) della democrazia diretta
Mentre i seggi chiuderanno alle 15 di lunedì, il dibattito si sposta già sul futuro. “Il quorum andrebbe abbassato al 40% o eliminato”, propone il politologo Giovanni Orsina. “Altrimenti, i referendum diventeranno inutili”. Una riforma che, però, richiederebbe emendamenti costituzionali improbabili nell’attuale panorama parlamentare.
Intanto, i comitati del “sì” provano un’ultima cartuccia: trasformare la mobilitazione in un voto di protesta contro il governo. “Più persone andranno alle urne, più il messaggio sarà chiaro”, incita un attivista durante un sit-in a Roma. Ma con le stime che parlano di un flop epocale, c’è chi scommette su un esito opposto: “Se l’affluenza crollerà sotto il 30%, sarà la prova che gli italiani vogliono lasciare queste decisioni al Parlamento”, dichiara un senatore della Lega.
Una cosa è certa: in questa partita, ogni scheda non depositata avrà lo stesso peso di un “no” gridato. E il vero vincitore potrebbe essere il silenzio delle urne vuote.