Un giovane nigeriano si toglie la vita nel CPR di Brindisi: “Non avrebbe dovuto trovarsi lì”

Un dramma silenzioso si è consumato nella notte tra l’1 e il 2 maggio all’interno del Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Restinco, a Brindisi. Un uomo nigeriano di 35 anni, trattenuto nella struttura da gennaio, è stato trovato morto nel suo letto, apparentemente per cause naturali, ma le circostanze precise della sua morte restano avvolte nel mistero e nel silenzio. La notizia, che ha scosso attivisti, parlamentari e associazioni impegnate nella tutela dei diritti dei migranti, ha riacceso i riflettori sulle condizioni di detenzione nei CPR italiani, spesso definiti “luoghi di malaccoglienza” e isolamento forzato.
La morte nel silenzio e l’omissione delle informazioni

Il deputato del Partito Democratico Claudio Stefanazzi si trovava in visita al CPR di Brindisi proprio nelle ore successive al decesso, ma non è stato informato della tragedia. “Sono stato lì per circa un’ora e mezza, ho incontrato ospiti e operatori sanitari – racconta Stefanazzi – e nessuno mi ha detto che poche ore prima era morto un ragazzo. L’ho scoperto solo nel pomeriggio, quando la voce ha iniziato a circolare. È una cosa che mi ha amareggiato profondamente”.
L’opacità e il silenzio che circondano la gestione della struttura sono denunciati con forza dal parlamentare: “C’è un embargo delle informazioni, pressioni sugli operatori perché non escano notizie che potrebbero causare problemi. È scandaloso che, a distanza di più di 24 ore, non ci sia ancora un comunicato ufficiale che chiarisca cosa è successo”.
Secondo quanto appreso informalmente, l’uomo sarebbe morto per un infarto fulminante, ma non si conoscono dettagli sulle sue condizioni di salute pregresse, né se siano stati adottati tempestivi soccorsi. L’ambulanza, chiamata intorno alle 7 del mattino, è arrivata quando il giovane era già deceduto. “Tutto questo mi è stato detto solo in modo informale”, aggiunge Stefanazzi, che ha annunciato un’interrogazione parlamentare per fare luce sulla vicenda.
Le condizioni di detenzione: isolamento, sofferenza e abuso di psicofarmaci
La visita del deputato ha anche rivelato un quadro inquietante delle condizioni interne al CPR di Restinco. Stefanazzi ha contato circa 16 persone in un solo blocco, uno dei quattro presenti nella struttura, e ha descritto l’ambiente come simile a un carcere: “Il cortile è chiuso da un tetto di plexiglas, e alle undici del mattino dormivano tutti, sedati dagli psicofarmaci”.
Secondo le testimonianze raccolte, oltre il 50% delle persone trattenute assume farmaci psichiatrici, spesso somministrati in modo indiscriminato e senza un adeguato supporto medico. La diagnosi di idoneità psichica, necessaria per l’ingresso nel centro, viene spesso ripetuta perché molti detenuti si presentano con gravi problemi psicologici incompatibili con la detenzione in un ambiente così restrittivo. Tuttavia, questa valutazione sembra ridursi a un atto burocratico, privo di efficacia terapeutica.
Gli attivisti No CPR: “Non avrebbe dovuto trovarsi lì”
La rete pugliese di attivisti No CPR ha organizzato un presidio davanti alla struttura il 3 maggio, per denunciare la morte e le condizioni di vita all’interno del centro. “Abbiamo sentito i lamenti e le urla di dolore dei migranti reclusi a Restinco – raccontano – uno di loro aveva le mani fratturate, un altro soffriva d’asma e aveva un’ernia”.
Gli attivisti hanno tentato più volte di chiamare un’ambulanza per soccorrere i detenuti in difficoltà, ma i mezzi sono stati bloccati all’ingresso o il personale medico interno ha rifiutato l’intervento esterno. Solo dopo l’intervento di un’avvocata è stato possibile ottenere la promessa di una visita medica esterna per un detenuto in condizioni gravi. “È assurdo – commentano – deve morire qualcuno perché venga ascoltato chi denuncia una situazione di sofferenza. E anche la morte, da sola, non basta. Ci sono volute venti persone fuori dai cancelli a fare rumore per ore, a pretendere ascolto”.
Per gli attivisti, il giovane nigeriano “non avrebbe dovuto trovarsi lì”. La detenzione nei CPR è spesso vissuta come una punizione, con trasferimenti punitivi verso strutture fatiscenti e isolate, dove l’accesso alle cure mediche, alle informazioni legali e ai beni di prima necessità è limitato. Le condizioni di degrado e isolamento aggravano il disagio psicologico dei trattenuti, alimentando un clima di disperazione che porta a frequenti episodi di autolesionismo, tentativi di suicidio e, purtroppo, a morti come quella di Restinco.
La terza morte in tre mesi: un sistema sotto accusa
Quella dell’uomo nigeriano è la terza morte registrata nel giro di tre mesi all’interno della stessa struttura, gestita da un consorzio privato che opera con ribassi sui costi di servizio, a discapito della qualità dell’assistenza e del rispetto dei diritti umani.
La gestione dei CPR da parte di aziende private, spesso multinazionali della detenzione, è da tempo oggetto di critiche e denunce. Le strutture pugliesi, in particolare, sono considerate tra le più degradate e isolate, con un livello di controllo e repressione che supera quello di altri centri italiani, come quelli di Ponte Galeria a Roma o Torino.
La politica e la società civile chiedono risposte
Il caso di Brindisi ha suscitato reazioni anche a livello politico. Il segretario di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo, ha definito “gravissimo” il livello di impunità raggiunto nei CPR, sottolineando come la morte di un detenuto sia stata taciuta anche durante la visita di un parlamentare. “Non sappiamo ancora se l’uomo fosse destinato all’esternalizzazione delle espulsioni in Albania – ha detto – ma sappiamo che la sua vita, come quella di molti altri rinchiusi, è considerata una vita di scarto”.
Il deputato Stefanazzi ha annunciato un’interrogazione parlamentare per fare luce sulle condizioni di salute dei detenuti, sulle modalità di soccorso e sulle responsabilità della gestione del centro. “C’è qualcosa di perverso in questo meccanismo che fa ricadere sulla politica, di cui sono parte, colpe enormi”, ha dichiarato.
Un grido di aiuto nel silenzio dei muri
La morte del giovane nigeriano nel CPR di Brindisi è un dramma che va oltre il singolo episodio. È il segnale di un sistema di detenzione amministrativa che, invece di garantire diritti e dignità, produce isolamento, sofferenza e morte.
Gli attivisti, i parlamentari e le associazioni chiedono con forza che venga aperto un confronto serio sulla chiusura di queste strutture, sull’abolizione della detenzione amministrativa e sul rispetto dei diritti umani fondamentali.
“Lasciateci entrare”, è l’appello che si leva da fuori e da dentro i cancelli di Restinco. Perché nessuno dovrebbe morire in silenzio, nascosto dietro muri e segreti.
Un commento