Stretta della Cassazione sulla cannabis light: commercializzare i prodotti a base di cannabis è reato. Ecco tutti i prodotti che saranno fuori legge

Vendere i prodotti a base di cannabis light è reato. Questa la decisione delle sezioni unite penali della Corte di Cassazione, che cambia completamente le carte in tavola per i migliaia di grow shop che negli ultimi anni hanno aperto i battenti in Italia.

Vediamo quali sono i prodotti fuori legge e cosa accadrà ora per i negozi di cannabis light.

Cannabis light, i dettagli della sentenza di Cassazione

«Integrano il reato [previsto dal Testo unico sulle droghe (articolo 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990)] le condotte di cessione, di vendita, e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis Sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».

È quanto si legge nel documento prodotto dopo la camera di consiglio di oggi, 30 maggio. Per leggere le motivazioni della sentenza bisognerà attendere ancora qualche settimana, quando i giudici della Corte di Cassazione depositeranno gli atti e le motivazioni

La legge del 2016 sulla liceità del commercio di prodotti derivati da cannabis light, continua il documento, «qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole». Catalogo che «elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati».

Sembra definitivo, insomma, che foglie, infiorescenze, olii a base di cannabis light non saranno più commercializzabili. Una decisione che va in netta contrapposizione con la legge del 2016 che consentiva ai grow shop di vendere prodotti con una percentuale di THC (la sostanza psicotropa della cannabis) superiore allo 0,6%.

Cannabis light: i vuoti legislativi e la sentenza della Cassazione

La sentenza della Cassazione si inserisce in un quadro normativo assai nebuloso. La legge del 2016 infatti disciplina chiaramente le misure relative alla pianta della canapa nella sua interezza ma non alle infiorescenze nello specifico.

L’avvocato Carlo Alberto Zaina, che in passato si è già occupato della questione, ha definito questa decisone «la solita scappatoia all’italiana: se la canapa non ha un principio attivo drogante, la questione non esiste. Ora bisognerà stabilire cosa si intende per principio drogante» specifica.

«Come al solito la montagna ha partorito il topolino, in un’ottica che lascia comunque incertezza. Perché se un commerciante riesce a dimostrare che la sostanza che vende non ha effetto drogante, non c’è niente di illecito».

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